| FIRENZE. Sindacati, organizzazioni d’impresa, centri studi della Toscana segnalano la riduzione dell’apparato produttivo della regione, la caduta della capacità produttiva, la caduta dell’occupazione a fronte della crisi globale e del restringimento del credito; che una regione fortemente orientata all’esportazione come la Toscana rischia molto in settori tradizionali (tessile abbigliamento calzature) ma anche nei poli industriali rimasti: siderurgia, scooteristica, ferroviaria, impiantistica. Ma anche il settore turistico va male ed è un settore esportatore: quando turisti stranieri vengono da noi con la loro valuta è come se esportassimo musei, pinacoteche, paesaggi, ristoranti, alberghi, ecc. Gli operatori sono molto preoccupati: i dati parlano chiaro. Ma forse avevano contato un po’ troppo su Berlusconi.
Le maggiori organizzazioni ambientaliste, le altre battagliano contro l’eolico, dicono che una risposta alla disoccupazione e al lavoro precario può venire dalla riconversione di attività industriali in crisi da domanda o da costi, e da nuovi investimenti per la riqualificazione ecologica dei prodotti (riciclabili e a più lungo uso), al risparmio energetico (riconversione di edifici a partire da quelli pubblici sia per il caldo che per il freddo), nuove fonti di energia (solare –termico, fotovoltaico, termodinamico-, eolico, risparmio e uso razionale, fonti di calore industriale, ecc.), la riconversione del trasporto privato verso quello pubblico a più bassi consumi ed emissioni di carbonio, l’innovazione tecnologica nel campo dei sistemi automatici di controllo e distribuzione dell’energia e dei consumi energetici in tutti i campi: industriali, servizi, domestici, sanitari, scolastici, trasportistici, riciclo, riuso, ecc.
Su tutti questi argomenti si ode un gran silenzio dal versante politico, a parte la generica solidarietà per chi perde il posto di lavoro, un po’ meno verso i precari lasciati senza nulla dalla sera alla mattina, anche perché i partiti, dopo decenni di liberalizzazione forzata del mercato del lavoro non sanno cosa dire e ci sarebbe da sperare che fossero anche un po’ in imbarazzo. E a parte qualche convegno sui lavori verdi e sulla riforma del welfare (tutte cose necessarie per carità) non si sente altro.
Per le cose da fare, ossia gli investimenti in ricerca scientifica e tecnologica, impianti industriali, sostegno alla domanda di nuovi prodotti per beni di investimenti (macchinari, infrastrutture, formazione, ecc.) per prodotti di largo uso, ma a basso rilascio di carbonio, nuova occupazione, sono ingenti. E gli industriali, gli operatori turistici o dei servizi non lo faranno mai se non coinvolti un grande programma di investimenti pubblici anche regionali (le risorse necessarie sono l’agire in deficit temporaneo e l’applicazione rigorosa del fisco); il mercato non è in grado di far fronte a conversioni di questa portata; crea le crisi (ed è anche un pessimo allocatore di materie prime, merci, denaro e capitale, del reddito non parliamo neanche visti i risultati) ma non sa risolverle.
Dopo aver predicato per decenni che bastava affidarsi al mercato e liberalizzare tutto: finanza, acqua, trasporti, sanità, beni comuni come territorio e ambiente, così ci sarebbe stata più ricchezza per tutti, cosa ci dicono oggi i nostri industriali e i nostri politici?
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